Per salire al cospetto di Dio bisognava prendere la larga scala bianca che portava all’ultimo piano. Quel giorno però Dio era assente, per cui era stato inviato all’ufficio del Vice direttore.
Il Vice direttore era un emerito stronzo. Il classico arrivista pronto a farti le scarpe pur di raggiungere i piani alti. Che cosa ci avesse visto Dio in quel lacchè era incomprensibile. Neppure sapeva esprimersi correttamente, strascicava le parole col suo accento meridionale e aveva sempre quella fastidiosa bavetta bianca ai bordi della bocca. Si era preparato il discorso con Dio dopo l’ultima missione: gli avrebbe spiegato con cura tutte le infinite anime che aveva redento, i casi disperati che aveva sbrogliato, i casi disperati che lo avevano disperato e la stanchezza accumulata negli anni.
«Sua Eccellenza, chiedo il permesso di prendermi una meritata pausa, la prego umilmente di tenere in considerazione questa richiesta». Si sarebbe prostrato ai piedi dell’Immenso e glieli avrebbe baciati come un condannato a morte al boia.
Farlo al vice direttore, invece, sarebbe stata solo una perdita di tempo e gli avrebbe fatto pure schifo, per cui entrò nell’ufficio, prese la busta e non chiese neppure di cosa si trattasse. Uscito dal palazzo smadonnò.
Arrivò a notte fonda nella casa. Il vecchio era seduto su una poltrona con in mano un bicchiere di scotch mezzo vuoto. Su un tavolino a fianco una vecchia abat-jour accesa e la bottiglia ormai terminata. Lo sguardo del vecchio era spento e fissava una cicciona nel letto che russava. Le lenzuola ingiallite e stropicciate lasciavano scoperte le gambe e il grosso culo della donna.
Il vecchio scaracchiò per terra, poi si accorse della presenza estranea e disse:
«Eccone un altro. I messi venuti a fare i professorini, tutto so io come va il mondo. Ma guardati, e dire che con quel candido camicione di lino e quei bei capelli biondi saresti una ghianda prelibata per gli animali del porcile terrestre. Devi essere glabro sotto, liscio come la buccia di un cocomero e succoso come il suo interno. Se sapessi dove infilarlo mi ti farei . Te ne vieni qui, come un voyeur, a spiarmi mentre mi scopo una battona e farmi la predica su cosa sia giusto e cosa non lo sia. Ma che ne sai tu del sesso? Vedi quella grossa fregna che pulsa tra le cosce? Quella fornace è la mia gioia e la mia rovina. Ti accoglie col suo calore, ti ammorba col suo languore e ti finisce senza scampo. Non puoi resisterle, è una viscida creatura, ti succhia dall’interno. Tu spingi la spada a fondo pensando di dominarla, di ferirla ma più ti muovi più lei ti vince. E’ una battaglia impari, è inutile, siamo destinati a perdere. Neppure il tuo Dio è stato capace di resisterle».
«L’unico che invece è nato senza palle sei tu. Non hai un sesso col quale giocare o godere e mi vorresti dire che questo è sbagliato? Non hai mai innaffiato un’ardente sorca, non ti sei mai addentrato in quel tunnel per scoppiare di gioia. Il tuo Dio ti ha fatto neutro. Non senti il caldo e neppure il freddo, non godi e non soffri. Non cavalchi, non hai modo di esibire tutta la tua portanza, di sentirti dominatore, di appagare i tuoi sensi. Non hai un arnese da prendere, scappellare, seviziare, tirare e stringere. Non hai un cazzo».
Una dannata vacanza, altro non chiedeva che una fottutissima vacanza.
Uscito dalla casa smadonnò.
di Evangelista