Da ragazzo sono cresciuto con il Veneziano ed è stato proprio il Veneziano ad iniziarmi alle canne.
Storie d’infanzia di un immigrato
Le canne
Da ragazzo sono cresciuto con il Veneziano ed è stato proprio il Veneziano ad iniziarmi alle canne.
Fu durante un capodanno. Il Veneziano era già un pro ma si sentiva solo per cui voleva coinvolgere tutti nel suo hobby proibito. Con me ci si era messo di impegno e mi aveva frantumato i coglioni sino allo sfinimento con ste canne e l’afro. Alla fine avevo ceduto e avevo accettato il cannone che girava. Mi parve una gran cagata e quel capodanno non provai i famosi sballi decantati dal Veneziano. Il Veneziano parlava di esperienze mistiche degne di Castaneda, viaggi interstellari con colori sfavillanti, suoni amplificati e benessere pervadente. Quello che vedevo da fuori era un sorriso ebete stampato sulla faccia del Veneziano e una faccia di disgusto quando tirava nella canna.
La matematica e le scarpe
Era il periodo delle medie. Il Veneziano era stato trapiantato in un paesino della Romagna e si doveva ambientare. Ancora era lontano il tempo dello sballo e il corpo del Veneziano era indietro con lo sviluppo; era minuto e portava grossi occhiali come Andreotti.
Cercava di mascherare le sue origini provando ad imitare la lingua, gli usi e i costumi degli autoctoni. Fu in questo periodo che per non farsi scoprire, iniziò ad appassionarsi ad una squadra di calcio locale. A dire la verità, io che conoscevo la sua vera natura, il Veneziano aveva un debole per il Napoli calcio. Oggi rinnega, ma la verità viene sempre a galla, come la merda. Ad ogni modo, per integrarsi, iniziò a giocare a calcio con passione ma, come dice De Andrè, la passione spesso conduce a soddisfare le proprie voglie senza indagare, in questo caso il Veneziano non aveva indagato sulla fragilità delle proprie ossa. Amava il calcio ma non aveva il calcio. Succedeva che ogni volta che giocava con i ragazzi romagnoli, si fratturava. Si ruppe più volte le braccia per cui era normale incontrare il Veneziano ingessato.
Fatto sta che durante il periodo delle scuole medie, il Veneziano era sempre a mezzo servizio perché non aveva mai una completa mobilità degli arti. Questa sua “malattia” gli faceva comodo per evitare di fare i compiti. I compagni cercavano di aiutarlo ma il Veneziano aveva abitudini strane e non era sempre facile supportarlo; era abituato a togliersi le scarpe in classe e restare scalzo. Gli insegnanti lo avevano spesso ripreso ma era più forte di lui.
Evidentemente era una tradizione atavica che si era tramandata di generazione in generazione in laguna. Accadde che un giorno il professore di matematica, terrore della scuola, stava spiegando il teorema di Pitagora.
Durante le ore di matematica il Veneziano evitata di togliersi le scarpe. La prima volta che ci aveva provato, il professore si era avvicinato con il grosso compasso di legno che usava alla lavagna e glielo aveva fracassato in testa.
Il Veneziano si era ritrovato tramortito e con gli occhiali di Andreotti rotti. A casa aveva preso il resto dal padre che doveva ricomprare quei costosi fondi di bottiglia. Insomma, quel giorno, il professore parlava di cateti ed ipotenusa, tutte parole incomprensibili per il Veneziano che stava bramando la libertà dei piedi. Stringeva i denti per paura di cedere. Per sua fortuna, era uno dei tanti periodi in cui era fratturato e aveva un braccio ingessato, per cui sarebbe stata dura togliersi agilmente le scarpe.
La lezione continuava ma la tentazione saliva.Ad un certo punto, senza rendersene conto, alle parole “l’area del quadrato” che il Veneziano interpretò come “l’aria del quadrato”, si liberò delle zavorre ai piedi con due rapidi scalci.
Era scalzo. Un sorriso spontaneo si aprì sul viso.
Il professore di matematica si interruppe e guardò il Veneziano:“Rimettiti le scarpe.”
Il Veneziano non capiva.
“Te lo dico una seconda ed ultima volta: rimettiti le scarpe.”
Il Veneziano si riprese dal suo stato di estasi e realizzò in quale guaio si fosse cacciato. Il terrore invase il suo corpo. Il sorriso non era più spontaneo ma forzato e la faccia era tirata come quella di Renato Balestra. Lo stesso sorriso che avrebbe riproposto in futuro ad ogni incontro con le forze dell’ordine.
Provò a muovere le braccia ma si ricordò di essere fratturato. Allora inizio a scalciare come un cavallo davanti al canape durante il palio.
Il tempo di un battito di ciglia e due dita marmoree si schiantarono sulla guancia del Veneziano. Il sorriso forzato lasciò il posto al dolore. Per il contraccolpo la testa aveva sbattuto sul gesso del braccio e gli occhiali si erano fratturati come le ossa. Con la coda dell’occhio fece in tempo a vedere le sue scarpe decollare e finire fuori dalla finestra. L’epilogo sembrava funesto ma il destino, quel giorno, decise di venire incontro al Veneziano.
La bidella entrò in classe senza bussare. Il professore era urgentemente richiesto all’esterno della scuola. Un alunno si era barricato dentro la vettura della madre e non ne voleva sapere di scendere. La madre disperata, dopo vani tentativi, era corsa a chiamare aiuto. Si trattava dell’alunno Puci. Aveva una repulsione per la scuola e una paura fottuta del professore di matematica. Da grande sarebbe diventato un grande attore di teatro, ma questa è un’altra storia.
di Evangelista