Storia di B.
“Quanto tempo tiene tuo figlio?” la grassona sorride maliziosa, “15 mesi” rispondo “muove ora i primi passi”. “Come la mia!! Mia figlia a un anno avessi dovuto stare a vede come correva” mi fa di rimando, e calando la matta. “Vieni accà Rosa” la bimba le corre in braccio, me la alza di fronte, la soppesa, la scuote, la capovolge, infine le apre la bocca premendo le dita sulle guance: “Guarda accà, tutti i denti ha messo fuori, è molto avanti, proprio una Montalbano. E il tuo?”. Sorride vittoriosa “ancora nessun dente vedo, hanno la stessa età ma stà ancora un po’ indietro”. Non rispondo, insacco il mio violino e vado a fare in culo da un’altra parte, spostando il passeggino dall’area giochi allo stagno delle anatre. Napoli, Montalbano, chiunque tu sia hai vinto questa piccola battaglia per lo scivolo, avrei voluto raccontarti la storia del mio cognome, visto che reputavi così importante il tuo, ma forse non c’era tempo per raccontarti ciò che so dei miei avi.
Erano gli anni in cui rincorrevo le galline nella vecchia casa di mio nonno a Premilcuore; passavo così le mie giornate, esplorando da solo il fiume, le viti e l’uva, annusando l’erba e la terra tutt’intorno a quella cascina che mi sembrava immensa e incantata. Un giorno salii per la scala di legno del pollaio cercando di evitare lo sterco. Sopra un vecchio soppalco ammuffito e custodito da un gallo che spazzai via con una mano, stava un vecchio baule di legno. Lo aprii; fu allora che lo trovai. Ricoperto da una coltre di polvere, uscì un tomo gigantesco “La grande storia dei B a puntate” di Oleg B. Scritto tra il 1735 e il 1740, il tomo ripercorreva le vicissitudini dei principali esponenti di questa eminente casata. Spunta un Rodolfo B agli inizi del 1600 che fu giustiziato per avere fottuto tutte le donne di Matera, paese in cui visse fino all’infausto epilogo avvenuto nel 1633: ghigliottinato di cazzo. Nel 1212 il lebbrosissimo Carlo B, in visita ad Assisi, contagiò il Santo Francesco solo per l’invidia infondata verso i suoi bellissimi occhi azzurri. Dice Oleg, in una nota a piè di pagina, che non entrò mai in paradiso. Aurelio B nel 1076 partecipò alla seconda Santa Crociata con le armate del Papa. Si nascose sulla nave senza sbarcare in terra infedele, sia perché codino sia per compiere il suo piano malvagio: aspettare che tutti fossero scesi per rubare il vascello. Riuscì nell’impresa ma, il giorno dopo, morì tragicamente sotto le ire di Nettuno in una tempesta in mare: non aveva mai guidato una nave e non c’era neppure Zattoni da cui copiare per cercare di capire come destreggiarsi al timone. In epoca maomettiana, un altro esponente dello stesso albero genealogico, tentò di vendere la grande piramide egizia ad un vichingo nordico spacciandola per sua. Scoperto immediatamente non fu ucciso ma, preso in simpatia, fu trasportato a Bysirk (attuale Svezia) dove superò alcune prove rituali e divenne un nordico a tutti gli effetti, dimostrando l’apolidia e il trasformismo che da sempre, in caso di pericolo, costituisce parte portante del carattere della dinastia B, assieme all’opportunismo camaleontico.
Alcuni B “srazzarono” da questo filone. Oleg ce ne segnala almeno due che seguirono il Cristo dopo la sua resurrezione in Tibet. La storia non ne parla per rimanere in linea con il filone narrativo clericale, Oleg tanto meno; ne verga solo due righe, a onor di cronaca, con la sua sfavillante piuma d’oca intrisa d’inchiostro.
Si limita a scrivere che in Tibet raggiunsero in qualche modo il Samadi ottenendo Moksa, la liberazione. Si librarono in volo sotto forma di falchi spirituali per unirsi con il grande serpente bianco che tutto creò. Non conosciamo i loro nomi e di certo a quel mattacchione di Oleg non fregava nulla. Molto più interessato a riportare storie di uomini sconfitti e frustrati, viaggiò sino ai confini del mondo per scovare gli albori delle sue radici. Uscì dalla cupola rompendo enormi barriere di ghiaccio con il suo pesante calamaio: le scimmie e i pesci che lo osservarono picchiare come una furia su quella coltre infinita di ghiaccio, giurarono di averlo sentito gridare ”The svastiiiic” mentre, trasformandosi in semidio filiforme ed instancabile, riusciva a crearsi un varco in quella barriera maledetta. Oltrepassandola osservò che la terra era piatta e sorretta da una tartaruga gigante che sonnecchiava nello spazio cosmico. Il libro era interrotto, mezzo autobiografico mezzo storico, mezzo delirante. Lo persi a metà degli anni ‘90 perché sbagliai a differenziare e lo misi nell’umido al posto degli scarti del melone. Un mese fa mi recai all’ACI per verificare la proprietà della mia auto comprata a Napoli, ed eccola lì: pesante sulla sua scrivania, con un respiro ansimante, c’era la Montalbano simile a un antico animale. “Ciao, come sta a tuo figlio? E i denti?” Non risposi, (c’e un po’ di Oleg in ogni B che si rispetti) ma le schizzai immediatamente addosso. Saltai jumpando così in alto, come solo certi insetti amazzonici riescono a fare; leggero come una libellula sfiorai il soffitto altissimo per poi planare rovinosamente verso il basso, incrementando di peso e potenza.
La colpii con un fendente bimane spaccandole all’istante la calotta cranica che esplose come una noce schiacciata. Mi girai, il vecchio dietro a sedere girò il basco e alzò il braccio mostrando una paletta e l’ascella pezzata. Un dieci perfetto per il gesto tecnico, fanculo la Comaneci.
Forse tra qualche anno sarò annoverato anch’io in qualche libro dai miei eredi, forse avrò solo calcato questo palcoscenico lasciando orme troppo leggere per rimanere, per essere ricordate. Non so, per ora ho solo ucciso una Montalbano. La strada è ancora lunga, e neanche troppo interessante.
Calcutta, bagni penali, estate 2019 B. M
di Miguel